1. – Il Tribunale di Chiavari, pronunciando nella causa promossa da A.A. nei confronti di (Omissis) Spa e B.B., vertente sul risarcimento dei danni asseritamente subiti dalla prima in conseguenza di un investimento per Euro 10.925,47, eseguito per il tramite dello stesso B.B., quale dipendente della banca sopra indicata, ha rigettato le domande proposte nei confronti di quest’ultima e condannato l’altro convenuto al ristoro dei danni nella misura sopra indicata.
2. – L’appello proposto dall’attrice, soccombente in primo grado con riguardo alla domanda proposta nei confronti dell’istituto di credito, è stato respinto dalla Corte di appello di Genova con sentenza del 16 maggio 2018.
3. – A.A. ricorre per cassazione avverso quest’ultima pronuncia, facendo valere due motivi di impugnazione; resiste con controricorso (Omissis). Entrambe le parti hanno depositato memoria.
1. – Il primo motivo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 2049 c.c.. Il ricorrente rileva che la responsabilità della banca per il fatto illecito dei propri dipendenti si configura ogni qualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quantomeno agevolato, da un comportamento riconducibile all’attività lavorativa del dipendente, e quindi anche se questi abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro, sempre che sia rimasto comunque nell’ambito dell’incarico affidatogli; assume che il comportamento doloso del preposto interrompe il nesso causale tra l’esercizio delle incombenze e il danno nell’ipotesi di condotta del ri Spa rmiatore anomala.
Il secondo mezzo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 2049 c.c.. Richiamando quanto osservato dai Giudici di merito con riguardo al valore probatorio di un non meglio precisato documento disconosciuto da (Omissis), ed evocando il valore di taluni elementi probatori acquisiti al giudizio, l’odierna istante censura la sentenza impugnata per aver trascurato che B.B. era stato condannato con sentenza passata in giudicato al ristoro del pregiudizio da essa patito: evenienza che comporterebbe, a suo avviso, “per l’ipotesi in cui venga ravvisato il nesso di occasionalità necessaria, che debba ritenersi provato il danno, il suo ammontare e il nesso eziologico”.
2. – La Corte di appello, pronunciandosi sul quarto motivo di gravame, che qui rileva, ha richiamato quanto accertato dal Tribunale non solo con riferimento alla relazione fiduciaria esistente tra l’investitrice e B.B., ma anche con riguardo alla condotta gravemente incauta dell’appellante, segnata da “anomalie percepibili da chiunque abbia una minima pratica di rapporti bancari e che avrebbero dovuto consigliare la signora A.A. ad un atteggiamento di maggiore prudenza”.
2.1. – Tale rilievo è conforme alla giurisprudenza di questa S.C., per la quale gli istituti di credito rispondono dei danni arrecati a terzi dai propri incaricati nello svolgimento delle incombenze loro affidate quando il fatto illecito commesso sia connesso per occasionalità necessaria all’esercizio delle mansioni, ma la responsabilità dell’intermediario per i danni arrecati dai propri promotori finanziari è esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quantomeno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore (Cass. 25 ottobre 2022, n. 31453; Cass. 15 dicembre 2020, n. 28634; cfr. pure: Cass. 12 ottobre 2018, n. 25374; Cass. 10 novembre 2015, n. 22956; Cass. 13 dicembre 2013, n. 27925; Cass. 24 marzo 2011, n. 6829; Cass. 24 luglio 2009, n. 17393).
Il primo mezzo, che pare escludere il rilievo che assume, sul piano del nesso causale, la predetta condotta anomala dell’investitore – condotta che è stata nella fattispecie oggetto di un apprezzamento di fatto, nemmeno sindacato sul versante motivazionale – si rileva, dunque, infondato.
2.2. – Il secondo motivo è inammissibile.
Esso è anzitutto carente di specificità nel riferimento operato al documento disconosciuto e alle prove menzionate dalla ricorrente (segnatamente: gli esiti di una perquisizione, l’ammissione resa da B.B. in sede penale, alcune ricevute).
La censura vertente sull’art. 116 c.p.c. è, del resto, fuori bersaglio. Infatti, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867).
Quanto alla dedotta mancata considerazione della condanna che B.B. avrebbe subito in sede penale, va osservato – al di là dei profili di genericità che affliggono anche tale doglianza (nulla essendo precisato, nel motivo di ricorso, quanto alla localizzazione, nei fascicoli processuali, della sentenza che sarebbe stata emessa e che sarebbe passata in giudicato) – come il comportamento di rilevanza penale del preposto, pur non interrompendo, di norma, il nesso causale fra l’esercizio delle incombenze e il danno, valga a giustificare, in presenza di una condotta anomala del ri Spa rmiatore, l’assoluta estraneità della banca al fatto del promotore, così da interrompere il nesso causale e da escludere la responsabilità dell’istituto di credito (Cass. 10 novembre 2015, n. 22956, cit.). In tal senso, la censura, che non si misura con quanto correttamente affermato in iure dalla Corte di appello quanto alla rilevanza che assumevano le condotte agevolatrici della ricorrente che presentavano connotati di anomalia, risulta priva di concludenza e di decisività.
3. – Il ricorso è dunque respinto.
4. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
La Corte:
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
- Redazione
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