1.A.A. A.A., B.B. B.B. e C.C. C.C. propongono ricorso per cassazione articolato in cinque motivi nei confronti della Azienda Sanitaria Locale Asl n. 6 di (Omissis), del dottor D.D. D.D., della Siemens Health Care Diagnostics Srl , di Generali Italia Spa , di Zurich Insurance Public Limited Company, di Groupama Assicurazioni nonchè di (Omissis) Spa , per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 1483 del 2020, depositata il 31 luglio 2020, notificata il 4 settembre 2020.
2.Resistono con separati controricorsi l’Azienda Usl (Omissis) (d’ora innanzi, AUSL), succeduta alla disciolta (Omissis) di (Omissis), il Dott. D.D. D.D., Generali Italia Spa , Groupama Ass.ni Spa Resiste Siemens Healtcare Srl (già Siemens Healthcare Diagnostics Srl ), con controricorso illustrato da memoria.
Resiste con controricorso recante due motivi di ricorso incidentale, illustrato da memoria, la (Omissis) Spa La Asl ha depositato controricorso per resistere al ricorso incidentale di (Omissis) s.p.a nonchè memoria ex art. 380 bis n. 1 c.p.c. 3. Questa la vicenda processuale, per quanto ancora di rilevanza in questa sede: A.A. A.A. e B.B. B.B., agendo in nome proprio ed anche in nome e per conto del figlio minore C.C. C.C., evocavano in giudizio la (Omissis) di (Omissis), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti in conseguenza della non tempestiva diagnosi della sindrome di Down di cui sarebbe poi risultato affetto il nascituro, causata dall’errata esecuzione di un test di screening prenatale da parte del dottor D.D. D.D., medico in servizio presso l’ospedale di (Omissis), che aveva loro impedito di determinarsi alla interruzione della gravidanza, previa una completa informazione sulle condizioni di salute del nascituro, provocando così la nascita indesiderata del figlio C.C.. Allegavano di aver eseguito due esami specifici, allo specifico fine di accertare l’esistenza o meno della sindrome di Down, la traslucenza nucale e l’esame del sangue mirato, in data 23 e 24 aprile 2009, i cui risultati erano stati approfonditi mediante un esame statistico eseguito dal Dott. D.D., il quale, nell’inserire i relativi dati nel sistema informatico, in data 9 maggio 2009, aveva erroneamente indicato, come data di esecuzione della traslucenza nucale quella del 23 maggio 2009, in luogo della data effettiva del 23 aprile 2009. A seguito di ciò, la macchina aveva elaborato un risultato falsato rispetto alla realtà, indicando l’esistenza di una probabilità contenuta di presenza della sindrome di Down, tenuto conto dell’età della gestante. Sostenevano gli attori che, se fosse stata inserita la data corretta, la probabilità di anomalie genetiche calcolata dal sistema sarebbe stata molto più elevata, ed essi, ove ne fossero stati resi consapevoli, avrebbero senz’altro interrotto la gravidanza. Chiedevano quindi il risarcimento danni nei confronti della Asl, che quantificavano in complessivi Euro 7.235.000,00.
3.1. La ASL eccepiva che il rapporto tra la gestante e il Dott. D.D. era stato di tipo libero professionale, e che rispetto ad esso la struttura sanitaria era rimasta estranea. Chiamava in causa il Dott. D.D. e la (Omissis) Spa , fornitrice del software “Prisca”, utilizzato dal Dott. D.D. per l’elaborazione dei dati. La (Omissis), a sua volta, evocava in giudizio la Siemens Healthcare Diagnostic Srl , distributrice in via esclusiva del software, nonchè la (Omissis) Ltd, società produttrice del software “Prisca”, e la propria compagnia di assicurazioni, Toro Ass.ni, oggi Generali Italia Spa Il Dott. D.D. evocava in giudizio le compagnie assicuratrici Groupama Ass.ni Spa e Zurich Insurance plc. Tutte le compagnie di assicurazioni si costituivano in giudizio.
3.2. Previo espletamento di una consulenza medico legale, il tribunale adito rigettava le domande degli attori, ritenendo che non avessero dato la prova che, seppure il dottor D.D. avesse portato a termine senza errori il test, inserendo i dati cronologici corretti, sarebbe stato possibile interrompere la gravidanza. Negava che dalla valutazione in concreto, eseguita ex post, fosse emerso un grave pericolo per la salute della madre in conseguenza della nascita del piccolo C.C., e riteneva che gli attori non avessero idoneamente provato che, una volta a conoscenza dell’alterazione genetica, la volontà della madre sarebbe stata, senz’altro, quella di interrompere la gravidanza. Aggiungeva che l’esame erroneamente eseguito era finalizzato a fornire un dato meramente probabilistico, e che all’epoca della gravidanza della signora B.B. l’unico esame che avrebbe potuto fornire la certezza sulla presenza o meno della sindrome di Down era l’amniocentesi, esame al quale la ricorrente, resa edotta dei rischi abortivi ad esso connessi, aveva liberamente deciso di non sottoporsi. Quanto alla domanda proposta in nome e per conto del minore C.C., la rigettava affermando che l’ordinamento non riconosce il diritto “alla non vita ovvero a nascere sani”.
4.Gli odierni ricorrenti proponevano appello, sostenendo di aver fornito la prova tanto dell’esistenza di una univoca volontà di procedere all’interruzione di gravidanza in caso di feto affetto dalla sindrome di Down quanto del fatto che la mancata sottoposizione della B.B. all’amniocentesi fosse riconducibile, per un verso, proprio all’alterato esito del test e, per l’altro, al suggerimento, proveniente dallo stesso Dott. D.D. proprio in considerazione del risultato tranquillizzante del test, di non sottoporsi all’amniocentesi perchè eccessivamente invasiva e rischiosa.
5.La Corte d’appello di Firenze ha confermato l’esito del giudizio di primo grado, rigettando la domanda degli attori.
5.1.La sentenza impugnata evidenzia come, nel caso di nascita indesiderata, il diritto al risarcimento del danno non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di una completa ed esatta informazione da parte del sanitario, in quanto il tema di prova è complesso, involgendo, oltre alla violazione degli obblighi di informazione gravanti sul medico e sulla struttura sanitaria, anche i diversi profili della prova in ordine alla volontà abortiva che la donna avrebbe maturato ed espresso se adeguatamente informata, e del ricorrere dei presupposti cui l’art. 6 della L. n. 194 del 1978 subordina la possibilità di interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni.
5.2. In premessa, la sentenza accerta l’esistenza di un deficit informativo, in quanto il D.D., pur avendo eseguito il test nei tempi necessari per consentire una eventuale interruzione di gravidanza per motivi di salute, ed avendo correttamente prospettato l’esistenza di altre metodologie di indagine che avrebbero consentito un accertamento della alterazione cromosomica, aveva poi, effettivamente, inserito erroneamente la data di esecuzione dell’esame di traslucenza nel programma “Prisca” utilizzato per l’analisi dei dati, il che -non avendo il programma a sua volta rilevato l’errore- ne aveva falsato i risultati. Tuttavia, la Corte territoriale d’appello conferma il rigetto della domanda, ritenendo anch’essa, come già il primo giudice, che gli appellanti non avessero fornito la piena prova che, ove correttamente informati, e posti a conoscenza della alterazione cromosomica, la scelta sarebbe stata quella di interrompere la gravidanza.
5.3.Nel motivare questo convincimento, la Corte d’appello dà rilevanza al fatto che la B.B., contrariamente a quanto lei stessa aveva preventivamente affermato dinanzi a testimoni che lo avevano confermato nel corso del giudizio, non aveva effettuato l’amniocentesi, l’unico esame che, all’epoca, pur presentando obiettive percentuali di rischio di interruzione involontaria della gravidanza, al contempo garantiva la possibilità di accertare la presenza della alterazione cromosomica da sindrome di Down a carico del feto – l’unico esame, cioè, che le avrebbe assicurato una effettiva completezza di informazioni, al fine di determinarsi consapevolmente all’esercizio o meno del diritto all’interruzione di gravidanza.
5.4. La Corte d’appello ritiene che non possa escludersi che la B.B. si sia fermata all’indagine di tipo meramente statistico non volendo affrontare il rischio insito nell’amniocentesi, pur rappresentata come una possibilità di approfondimento dal dottor D.D., per evitare il rischio di perdere il bambino. Sulla base di questi elementi, e di altre risultanze processuali che ritiene rilevanti – che indica nella età relativamente avanzata della gestante (37 anni) e nel rischio di distacco placentare verificatosi al secondo mese – ritiene non univocamente provato che la scelta di non eseguire l’amniocentesi fosse stata determinata dall’esito alteratamente rassicurante dell’esame statistico eseguito, e ne trae la conclusione che non sia stata raggiunta la prova sulla volontà della madre di abortire, ove correttamente informata.
5.5. Infine, esclude l’emersione di elementi tali da poter ritenere esistente un grave pericolo per la salute psichica della B.B. correlato alla nascita del bimbo con alterazione cromosomica.
5.6. La sentenza chiarisce, infine, che la produzione documentale utile alla quantificazione del danno patrimoniale subito dagli appellanti non è stata ammessa per assenza dei presupposti atti a giustificare l’interruzione volontaria della gravidanza.
5.7. Conclusivamente, la corte d’appello rigetta l’appello principale dei signori A.A. e B.B., compensa per un terzo le spese tra gli appellanti e il medico, condanna gli appellanti a rifondere i due terzi delle spese di giudizio al procuratore distrattario del medico, condanna gli appellanti a rifondere le spese processuali nei confronti di tutte le altre parti costituite, tranne che nei confronti della Siemens Healthcare Diagnostics Srl , della quale dichiara la carenza di legittimazione passiva; rigetta l’appello incidentale proposto dalla (Omissis)System nei confronti della Siemens e la condanna al pagamento delle spese nei confronti di questa.
La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale. Il Procuratore generale non ha ritenuto di depositare conclusioni scritte.
Il ricorso principale.
1.Con il primo motivo di ricorso i signori A.A. e B.B., che dichiarano di agire, anche in sede di legittimità, per sè e per il figlio minore C.C., denunciano la violazione o falsa applicazione dell’art. 24 della Costituzione, e degli artt. 183, comma 7, 244 e 245 c.p.c., là dove, prima il tribunale e poi la corte d’appello, hanno ritenuto di ammettere uno soltanto dei numerosi capitoli di prova orale formulati dagli appellanti nella memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c., e di non ammettere la cospicua produzione documentale allegata alla seconda memoria istruttoria, benchè le istanze istruttorie siano state costantemente coltivate e reiterate più volte.
In tal modo, i giudici di merito avrebbero di fatto precluso loro la possibilità di adempiere al gravoso onere probatorio a loro carico, sul duplice profilo della volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, ove adeguatamente informata delle rilevanti anomalie a carico del nascituro, e del grave pericolo provocato dalla situazione per la sua salute fisica o psichica. Evidenziano che, in particolare, la cospicua produzione documentale non ammessa era finalizzata proprio a provare le gravi condizioni di salute psicologica in cui si era trovata la signora B.B. dopo il parto, e l’impegno, gravoso in termini di tempo e impegno psicologico ed anche oneroso, sostenuto dalla famiglia per assicurare l’adeguata crescita di un bambino con particolari esigenze e difficoltà.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 7 della L. n. 194 del 1978, là dove fissa i presupposti per l’interruzione volontaria della gravidanza oltre il novantesimo giorno dal concepimento.
Segnalano in particolare l’errore di metodo in cui è incorsa la decisione impugnata: la valutazione sul grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna deve necessariamente essere frutto di una valutazione probabilistica ex ante, sulla base degli elementi di prova raccolti, e non può appiattirsi su una valutazione ex post. Il fatto che la donna non sia risultata affetta da una grave patologia depressiva dopo la gravidanza, e che sia stata comunque in grado di affrontare la situazione con determinazione e solidità, non esclude che potesse essersi verificato un grave pericolo per la sua salute psichica ex ante, nel momento in cui le è stato chiaro che la gravidanza a lungo attesa e circondata da ogni cura aveva avuto come esito la nascita di un bambino con un handicap permanente.
3.Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 numero 4 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., là dove sono stati chiamati a corrispondere le competenze anche ai difensori dei terzi chiamati in causa dalle altre parti presenti in giudizio, sia in primo grado che all’esito del giudizio di appello, pur non avendo mai essi attori esteso la domanda anche nei confronti dei terzi chiamati. 4.Con il quarto motivo denunciano la violazione del D.M. n. 55 del 2014, contenente i criteri di calcolo dei compensi professionali. Sostengono di essere stati condannati al pagamento di un importo troppo elevato a titolo di spese processuali, tenuto conto che, benchè avessero inizialmente formulato la domanda per un ottenere un importo determinato, in realtà la stessa, sulla base delle conclusioni, era stata poi ricondotta allo scaglione delle domande di valore indeterminabile, giacchè si erano rimessi alla liquidazione secondo giustizia.
5.Con il quinto motivo denunciano la violazione dell’art. 92 c.p.c., là dove il giudice non ha ritenuto, sia in primo che in secondo grado, di disporre la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.
6. E’ preliminare all’esame dei motivi del ricorso principale una considerazione: la domanda è stata proposta fin dall’inizio, dai signori A.A. e B.B., anche in nome e per conto del figlio minore C.C., in riferimento ai danni biologico e morale da questo patiti per la nascita con sindrome di Down. La domanda proposta dagli odierni ricorrenti quali genitori esercenti la potestà su C.C. C.C. è stata rigettata dal tribunale, sulla base delle affermazioni contenute nella sentenza n. 25767 del 2015 di questa Corte a Sezioni Unite, che, chiamata a pronunciarsi proprio sul diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per l’impossibilità di condurre un’esistenza sana e dignitosa, ha affermato “che non esiste, nel nostro ordinamento, un diritto a non nascere se non sano, nè la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico, che non è in rapporto di causalità con l’esistenza dell’alterazione cromosomica”.
La domanda è stata riproposta in appello, e su di essa la corte d’appello non ha espressamente preso posizione, mentre ha esaminato, e con una articolata motivazione negato il diritto al risarcimento del danno patito dalla madre e dal padre di C.C. per non aver potuto compiere liberamente, nei limiti consentiti dalla legge, la loro scelta.
I ricorrenti, anche in questa sede, ricorrono in proprio ed anche in nome e per conto del minore: tuttavia, nessuno dei motivi di ricorso e delle censure ivi contenute concerne, nè nella rubrica e neppure all’interno dei motivi, la situazione del minore. Pertanto, può ritenersi che il rigetto della domanda concernente l’autonomo diritto risarcitorio di C.C. C.C. al risarcimento del danno per essere nato con sindrome di Down sia ormai passato in giudicato.
7. Procedendo all’esame del ricorso principale, l’esame del secondo motivo è preliminare ed assorbente rispetto agli altri, perchè involge la corretta applicazione, da parte della corte d’appello, dei parametri normativi posti a fondamento dell’accertamento del diritto al risarcimento dei danni da privazione di una libera e consapevole determinazione sulla scelta abortiva, nei limiti in cui essa è consentita dalla legge.
Riprendendo una considerazione già svolta in un precedente arresto di legittimità (Cass. n. 13881 del 2020), il diritto del quale in questa sede si chiede tutela è il diritto al risarcimento dal danno da privazione della facoltà di esercitare una consapevole scelta se effettuare o no un aborto terapeutico. Appare più corretto qualificare in questi termini il diritto al risarcimento dei danni in caso di deprivazione del diritto conseguente alla omessa informazione sulla esistenza di malformazioni del feto tali da consentire l’accesso all’aborto terapeutico, piuttosto che nei termini di “danno da nascita indesiderata” pur talvolta usati, che non danno conto con sufficiente rispetto della sofferenza e della pari dignità che caratterizza sia la scelta di procedere consapevolmente nella gravidanza che darà luogo alla nascita di un bambino menomato, sia quella di interromperla.
Per verificare se vi sia Spa zio per la tutela del diritto azionato deve preventivamente procedersi all’accertamento giudiziale, o quanto meno alla delibazione della sua esercitabilità da parte della donna, nella fattispecie concreta sottoposta all’esame del giudice adito, del diritto di aborto, e quindi alla verifica della relativa sussistenza dei presupposti di legge laddove, come nella specie, si tratti di malformazione individuabile solo dopo il terzo mese di gravidanza – nel periodo in cui, cioè, la scelta della madre è circoscritta alle sole ipotesi di aborto terapeutico (“Nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata – ricorrente quando, a causa del mancato rilievo da parte del sanitario dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di abortire – è onere della parte attrice allegare e dimostrare, con riguardo alla sua concreta situazione, la sussistenza delle condizioni legittimanti l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 6, lett b), della L. 22 maggio 1978, n. 194, ovvero che la conoscibilità, da parte della stessa, dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica”: Cass. n. 27528 del 2013 e Cass. n. 7269 del 2013).
Si tratta di una valutazione necessaria che deve essere compiuta dal giudice di merito sulla base delle circostanze allegate e delle prove (in esse incluse le presunzioni) fornite da chi agisce per poter considerare esistente il diritto violato, e che deve prendere in considerazione i tre elementi previsti dalla legge (rilevanza delle malformazioni – grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre – volontà espressa o presunta di abortire).
8. Ciò premesso, il secondo motivo di ricorso è fondato, per le considerazioni che seguono.
Il giudice di merito, pur avendo articolatamente espresso le ragioni del proprio convincimento, è incorso in due errori di diritto, che inficiano la correttezza della decisione.
Come posto in rilievo dalla sentenza a Sezioni Unite n. 25767 del 2015, l’impossibilità della scelta della madre di interrompere la gravidanza, nel concorso delle condizioni di cui all’art. 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile.
L’onere probatorio è a carico della madre e il thema probandum è costituito da un fatto complesso, integrato dal concorso di molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest’ultima. Ulteriore elemento di complessità della valutazione è costituito dal fatto che la prova verte (anche) su una determinazione di volontà interiore della donna, della quale non si può fornire rappresentazione immediata e diretta. L’onere probatorio può dunque essere assolto tramite la dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare, secondo un criterio probabilistico.
L’onere della prova del concretizzarsi del pericolo e della scelta di ricorrere all’aborto è a carico della donna, la quale potrà adempiervi anche mediante presunzioni, dimostrando secondo il criterio del “più probabile che non” che non avrebbe portato a termine la gravidanza. Ancora, come indicato dalle Sezioni Unite, il tema d’indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale, gravando poi sul professionista l’onere della prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale.
Nell’ambito della prova per presunzioni, l’indagine si focalizza, allora, sul metodo di valutazione degli elementi indiziari disponibili, e sulla scelta se essa possa dipanarsi secondo un generico modello olistico, ovvero attraverso un rigoroso metodo analitico.
La scelta del metodo atomistico-analitico appare la più corretta, nell’incipit del ragionamento probatorio per presunzioni, atteso che il modello olistico si presterebbe facilmente a sovrapporre alla realtà dei fatti storici la loro narrazione (da parte del difensore o dello stesso giudice) in seno al processo, con il rischio che una perfetta coerenza narrativa, pur in ipotesi assolutamente falsa, possa fuorviare il giudice e condurlo ad una decisione ingiusta, mentre il metodo analitico-atomistico si fonda sulla premessa che la base della decisione sia rappresentata dai fatti e soltanto da essi.
La valutazione dei fatti secondo un modello analitico segue, peraltro, un percorso logico distinto in due fasi – che ne consente una parziale combinazione con quello olistico – fondate, dapprima, su di un rigoroso esame di ciascun singolo fatto indiziante (onde eliminare i fatti privi di rilevanza rappresentativa e conservare quelli che, valutati singolarmente, offrano un contenuto positivo, quantomeno parziale, sotto il profilo dell’efficacia del ragionamento probatorio), e successivamente, su di una valutazione congiunta, complessiva e globale di tutti quei fatti, alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale, congruenza espositiva, concordanza prevalente, onde accertare se la loro combinazione, frutto di sintesi logica e non di sola somma aritmetica, possa condurre all’approdo della prova presuntiva del factum probandum – che potrebbe non considerarsi raggiunta attraverso una valutazione atomistica di ciascun indizio (quae singula non possunt, collecta iuvant).
Accertata preliminarmente la valenza indicativa di ciascun fatto indiziario secondo il modello analitico, si procede poi all’esame metodologico dell’intera trama fattuale in modo complessivo e unitario, di tal che la possibile ambiguità dimostrativa di ciascun factum probans può anche risolversi nel necessario significato dimostrativo che consenta di ritenere raggiunta la prova logica del factum probandum. Il procedimento mentale da percorrere, per il giudice, è dunque quello della analisi del singolo elemento di fatto, e della sua collocazione e ricomposizione all’interno di un mosaico del quale il singolo indizio costituisce la singola tessera.
L’indagine può proseguire attraverso l’analisi degli elementi caratterizzanti i fatti posti a fondamento del ragionamento presuntivo, e cioè la gravità, la precisione, la concordanza, non senza osservare, in premessa, come tali requisiti, che il legislatore civile attribuisce (impropriamente) alle presunzioni, siano assai più correttamente riferiti, dal legislatore penale, agli indizi da cui dedurre l’esistenza del factum probandum (art. 192, comma 2, c.p.p.).
Sul piano logico, mentre i primi due requisiti appaino compatibili con la presenza, in seno al processo, di un unico fatto indiziante, la concordanza indiziaria sembra escludere tale possibilità, atteso che l’art. 2729 elenca congiuntamente e non disgiuntivamente tutti e tre i presupposti della prova presuntiva.
La precisione indiziaria è sintagma che sembra deporre nel senso della necessità che il fatto storico da cui muove il ragionamento inferenziale sia certo, e non soltanto probabile o possibile (il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del congiunto -fatto principale- si fonda sull’esistenza del matrimonio -fatto secondario certo-; il risarcimento del danno biologico sul piano morale e dinamico/relazionale -fatto principale- si fonda sulla lesione della salute -fatto a sua volta principale certo-; la simulazione assoluta di una compravendita si fonda, per il creditore del simulato alienante, sul contratto, sul mancato versamento del prezzo da parte del simulato acquirente, sull’esistenza di un credito insoddisfatto e non altrimenti onorabile da parte del simulato alienante -fatti certi-; il danno patrimoniale da mancato guadagno presuppone lo svolgimento di un’attività lavorativa e l’indicazione del relativo reddito da parte del danneggiato -fatti certi-). La gravità indiziaria, che sembra ripetere il proprio significato dalla indicazione contenuta nel già ricordato art. 192, comma 2, del codice di procedura penale, va invece riferita alla forza, all’idoneità, alla pertinenza dimostrativa del singolo fatto indiziante – sul presupposto della sua certa esistenza storica – tale da offrire al giudice il necessario grado di attendibilità oggettiva in previsione della successiva valutazione sintetica dell’intero complesso indiziario.
La concordanza indiziaria è il requisito la cui definizione (e la cui stessa predicabilità) appare altamente problematica, da un canto, perchè la relativa qualificazione postula un giudizio logico-inferenziale riferibile tanto ai fatti indizianti quanto al ragionamento probatorio presuntivo che, dopo averli collegati tra loro, giunge alla conclusione della esistenza/inesistenza del fatto ignoto; dall’altro, perchè non sembra corretto riferirlo, in senso assoluto, a tutti i fatti indizianti, interpretandolo in guisa di necessità che tutti convergano univocamente nella medesima direzione. Più corretto sembra, invece, ritenere sufficiente che alcuni di essi indirizzino verso la medesima conclusione, qualora la forza dimostrativa degli altri non sia tale da attribuire un grado di conferma superiore rispetto ai primi (così orientando erroneamente la decisione nel senso della non esistenza del fatto da provare). Il requisito della concordanza, pertanto, non va inteso in senso assoluto, bensì in termini di prevalenza logica relativa, e può risultare non necessario nei casi in cui, tra i vari fatti indiziari, ve ne sia uno dotato di tale efficacia dimostrativa da attribuire un sufficiente grado di conferma all’ipotesi circa il fatto da provare (si pensi alla perdita violenta di un figlio, per un genitore, ed alla gravità ed esaustività di tale factum probans al fine di ritenere accertato il fatto ignoto del danno non patrimoniale, nonostante l’esistenza di altri fatti contrari in seno al processo: in tal caso la concordanza indiziaria può risultare non necessaria, se altri fatti indizianti -e le relative inferenze presuntive di segno diverso, come, ad esempio, la non convivenza con i genitori e la non frequentazione dei medesimi- si caratterizzino per attribuire all’ipotesi contraria un grado di conferma assai debole: il principio della probabilità logica prevalente consentirà di ritenere provato il fatto ignoto, pur in presenza di fatti -ed inferenze presuntive-dissonanti).
Rapportando alla fattispecie concreta le precedenti indicazioni sulla strutturazione del ragionamento probatorio, i primi due profili della fattispecie concreta (l’alterazione cromosomica di C.C. C.C., l’errore del medico nell’inserimento dei dati) sono stati accertati, nella loro dimensione fattuale, senza dare adito a successive contestazioni: in particolare, è stato accertato l’errore del medico nell’inserimento dati nel programma (non rilevato dal software, benchè il medico avesse inserito una data di esecuzione dei precedenti accertamenti successivo a quella stessa di inserimento dei dati), finalizzato alla indicazione della probabilità statistica di malformazioni del feto in soggetto di caratteristiche consimili alla gestante, che ha portato ad un esito dell’esame statistico falsato, ovvero alla indicazione di una probabilità statistica di malformazioni ben più ridotta rispetto a quella che ne sarebbe scaturita ove fosse stato inserito il dato cronologico corretto. L’informazione che il medico ha fornito alla sua paziente, dunque, non è stata rispondente alla situazione reale.
E’ invece sub iudice, in quanto oggetto di contestazione in questa sede, la rilevanza di questo dato, in connessione con gli altri elementi che compongono il tema della prova del danno risarcibile da conculcata scelta abortiva.
Pur a fronte dell’accertamento dell’errore medico, la corte d’appello ha escluso il diritto al risarcimento dei danni perchè non ha ritenuto provato che la paziente, anche se fosse stata correttamente informata, non avrebbe comunque eseguito l’amniocentesi, unico esame che, benchè rischioso, le avrebbe consentito di accertare la presenza o meno di alterazioni cromosomiche nel feto, la cui possibilità era stata comunque illustrata alla coppia dal Dott. D.D.; da ciò ha dedotto, valutando il dato insieme ad altre risultanze istruttorie, che non potesse ritenersi provato che la paziente, ove adeguatamente informata, avrebbe effettivamente scelto di interrompere la gravidanza.
La corte di merito, dunque, ha erroneamente assunto come dato certo sul quale fondare la propria valutazione la consapevole scelta della signora di escludere l’amniocentesi e ne ha dedotto che la volontà della stessa di abortire non era poi così ferma come la stessa affermava, se aveva evitato quell’unico accertamento che le avrebbe dato la certezza delle malformazioni.
E tuttavia il ragionamento probatorio è manifestamente errato, ed in aperto contrasto con i principi poc’anzi esposti, perchè dà rilievo assorbente ad un fatto (rectius, ad una omissione) – la scelta della signora B.B. di non eseguire l’amniocentesi – che a sua volta non si presta in alcun modo ad una ricostruzione inferenziale quantomeno probabile, poichè fondata su una scelta non consapevole in quanto alterata, nel suo processo formativo, dal rassicurante quanto errato esito dell’esame statistico.
A fronte di una pluralità di fatti certi – la decisione di sottoporsi ad un esame comunque attendibile, diversamente dal tritest, come la traslucenza nucale, al fine di accertare eventuali menomazioni del nascituro, e l’errore diagnostico colpevole – la decisione di non sottoporsi ad amniocentesi, sul piano indiziario, risulta del tutto irrilevante ai fini del ragionamento probatorio, essendo una scelta palesemente alterata dal deficit informativo accertato.
L’errore di sussunzione in cui è incorsa la Corte territoriale è rappresentato, pertanto, dall’aver fondato la propria decisione su un significante (i.e., un fatto omissivo) il cui significato, oltre a non rivestire alcun carattere di precisione e gravità sul piano probatorio, ben si prestava a possibili e ben più verosimili spiegazioni alternative, costituite dal rischio di aborto conseguente all’amniocentesi, dalla rassicurante diagnosi relativa alle possibili malformazioni indicate dalla macchina, dalla qualità di primipara attempata della ricorrente, dal precedente rischio di distacco della placenta profilatosi nei primi mesi di gravidanza.
Il fatto omissivo, nel caso di specie, non poteva (e non potrà, in sede di giudizio di rinvio) rivestire alcuna valenza indiziaria a fini probatori, stante la insanabile equivocità del suo significato (e stante, come già evidenziato, addirittura la maggior probabilità logica rappresentata da una scelta di tipo conservativo, conseguente all’errore diagnostico, che non mettesse inutilmente a rischio la stessa vita del nascituro a fronte di una gravidanza a lungo desiderata).
Espunto dal novero dei facta probantia idonei a ricostruire correttamente la verità del factum probans la scelta di non sottoporsi ad amniocentesi, il ragionamento presuntivo non avrebbe potuto che fondarsi sui fatti certi costituiti dall’errore medico e dalla sottoposizione ad un’indagine altamente significativa sul piano diagnostico, per dedurne la inevitabile conclusione, sul piano probabilistico, della esistenza di una volontà abortiva della gestante in caso di accertato rischio di malformazioni genetiche.
9. La sentenza impugnata contiene inoltre un secondo errore di diritto, laddove ha ritenuto non dimostrata l’esistenza di un grave pericolo per la salute psicofisica della donna, ultimo presupposto legittimante, ex art. 6 della L. n. 194 del 1978, con ragionamento ex post.
Dalla stessa sentenza a Sezioni Unite sopra citata, che indica i canoni da rispettare per compiere questo delicato giudizio, si deduce che la situazione di grave pericolo per la condizione psicofisica della madre va accertata (come situazione di danno potenziale) necessariamente con giudizio ex ante: la prefigurazione della situazione di pericolo va desunta dalle circostanze che esistono al momento in cui la scelta deve essere compiuta, ovvero, in caso di inesatte informazioni che in thesi precludano una scelta libera e consapevole, sulla base della situazione in cui la gestante si sarebbe presumibilmente trovata se correttamente informata. E’, in definitiva, un giudizio ipotetico controfattuale ex ante. L’accertamento della situazione di grave pericolo è accertamento in concreto che deve essere compiuto caso per caso (in questo senso anche Cass. n. 653 del 2021, che evidenzia come non sia necessario che la malformazione si sia già prodotta o risulti strumentalmente o clinicamente accertata, affinchè se ne possa desumere il grave pericolo di ripercussioni negative per la salute fisica o psichica della donna).
Si tratta di un accertamento di pericolosità potenziale, che va effettuato in concreto sulla base delle condizioni della gestante ex ante ai fini dell’accertamento della sussistenza dei presupposti per interrompere la gravidanza oltre i 90 giorni e prima della possibilità di vita autonoma del feto e, ove questa possibilità sia stata conculcata a causa delle inesatte informazioni ricevute, per accertare l’esistenza dei presupposti per la configurabilità del diritto al risarcimento del danno.
La valutazione della potenziale grave pericolosità, come condizione legittimante l’interruzione di gravidanza e presupposto per il sorgere del diritto al risarcimento del danno, deve essere eseguita con valutazione prognostica ex ante perchè è mirata sulla gravità del pericolo cui è esposta la madre a causa dell’inaspettata notizia della infermità dalla quale risulta affetto il feto, e non può essere, invece, parametrata, ex post, alla capacità del soggetto di reagire e di affrontare le difficoltà aprendosi all’accoglienza del bambino ormai nato: sostituire la valutazione ex ante con la valutazione ex post equivale a negare il diritto alla legittima interruzione della gravidanza (e, ove ciò sia reso impossibile dalla mancanza di adeguate informazioni, al risarcimento dei danni) in capo ai soggetti che dimostrano maggiore resilienza, maggiore capacità di affrontare le situazioni in cui involontariamente si vengono a trovare, introducendo una di Spa rità di trattamento che non ha fondamento legale.
Anche sotto questo profilo il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, in quanto la stessa ha escluso che il pericolo per la salute della signora B.B. a causa della situazione raggiungesse la soglia della gravità – discostandosi del tutto immotivatamente dalle conclusioni del medico legale – avendo preso in considerazione, ex post, la sua solidità emotiva nell’affrontare le difficoltà, l'”impegno programmatico che la paziente mostra per affrontare le necessità del figlio” quali fatti dai quali è risalita, per via induttiva, al fatto psichico da accertare e che gli attuali ricorrenti erano chiamati a provare in concreto.
Beninteso, l’accertamento di potenziale grave pericolo ex ante per la persona della madre costituisce uno dei presupposti per il sorgere del diritto all’interruzione della gravidanza o del diritto al ristoro per equivalente dell’impossibilità del suo esercizio. Esso non fa venir meno l’esigenza di un – diverso – accertamento ex post sulla consistenza del danno in concreto patito, ovvero volto alla individuazione della esistenza e della misura del danno non patrimoniale (ed anche del danno patrimoniale) riportato dalla madre ed anche dal padre (la legittimazione attiva anche del padre è ben ricostruita da Cass. n. 2675 del 2018 e non è stata, in questo caso, mai messa in discussione) a causa dell’impossibilità di esercitare la facoltà di interrompere la gravidanza nei casi previsti dalla legge.
Come ricordano le Sezioni Unite nella sentenza n. 25767 del 2015, per accertare l’esistenza del danno e quantificare il risarcimento dovuto, esclusa la configurabilità di un danno in re ipsa, occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, ex art. 6 lett. b) L. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio.
Ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale eventualmente subito, per ancorarlo ad una valutazione equitativa che non sia arbitraria, l’accertamento ex post dovrà fondarsi sul danno psicofisico e sul danno morale eventualmente riportati da ciascuno dei due genitori a causa dell’evento traumatico, adeguatamente valorizzandoli nella loro autonomia concettuale (per una accurata ricognizione del distinto significato delle due voci di danno, delle quali mette in rilievo che siano accomunate dal condiviso punto di caduta rinvenibile, in ultima analisi, nella comune dimensione propria del ‘dolorè, ossia della ‘sofferenzà che – con riferimento, tanto agli aspetti riflessivi della persona nel suo rapporto con sè stesso, quanto a quelli che attengono al sè aperto alle dinamiche della vita quotidiana e alla relazione con l’altro da sè – viene avvertita come afflizione generata da una limitazione imposta, dalla percezione dell’incompiutezza provocata, dall’equilibrio interiore violato, dalla frustrazione generata da impedimenti, e comprensiva della precisazione conclusiva che devono ritenersi normalmente assorbite nel danno biologico di lieve entità (salvo prova contraria) tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sotto il profilo del danno morale, v. Cass. n. 6444 e 6443 del 2023).
10. I motivi 1, 3 e 4 e 5 del ricorso principale rimangono assorbiti, perchè il giudice di merito dovrà rinnovare la sua valutazione, emendandola dagli errori di diritto sopra evidenziati, riprendendo in considerazione le istanze istruttorie formulate dalle parti, all’esito della quale rinnoverà anche la valutazione sulle spese di lite.
Il ricorso incidentale della società distributrice del software.
11. La (Omissis)System Spa , società distributrice per l’Italia del software utilizzato dal dottor D.D., resiste con controricorso articolando anche due motivi di ricorso incidentale.
11.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale la società denuncia l’errore in giudicando e la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in cui sarebbe incorsa la corte d’appello rigettando l’appello incidentale della stessa (Omissis), in riferimento all’accordo (denominato Distribution Agreement) stipulato con la Siemens Healthcare Diagnostics Srl nel 2010 e in riferimento al Termination Agreement concluso lo stesso anno, nonchè in riferimento alla condotta osservata dalle parti. Censura il punto della sentenza d’appello che ha confermato la statuizione di primo grado ove si accertava il difetto di legittimazione passiva della Siemens Healthcare Diagnostics Srl , chiamata erroneamente in causa come società fornitrice del software, ritenendo che all’epoca dei fatti il rapporto di distribuzione fosse tra la (Omissis) e la Siemens Healthcare Diagnostics Inc., diversa società pur appartenente allo stesso gruppo.
La ricorrente incidentale sostiene che con l’accordo sottoscritto nel 2010, quindi successivo ai fatti, la Siemens Healthcare Diagnostics Srl , distributore generale del macchinario, si sarebbe assunta la responsabilità per difetti del prodotto anche in relazione alle precedenti forniture del medesimo software.
12. Il motivo è inammissibile perchè volto a provocare da parte di questa Corte una diversa e in questa sede non consentita interpretazione diretta del contratto intercorso tra le parti, che la Corte d’appello ha già esaminato ed in relazione al quale la ricorrente incidentale non denuncia neppure quale canone di interpretazione sia stato violato da parte del giudice di merito.
13. Con il secondo motivo di ricorso incidentale la (Omissis)System denuncia un errore in procedendo ovvero la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., ed in subordine chiede che sia sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale dello stesso art. 346 c.p.c., là dove la sentenza d’appello ha ritenuto di poter scrutinare le domande formulate dalla Asl nel primo grado di giudizio e rigettate nonostante che la Asl non si fosse costituita tempestivamente in appello nè avesse tempestivamente e puntualmente riproposto le sue domande con appello incidentale.
La ricorrente incidentale sostiene che il convenuto in appello non ha l’onere di proporre appello incidentale ma che lo stesso debba riproporre le domande e le eccezioni non esaminate dalla sentenza di primo grado nella comparsa di risposta tempestivamente depositata: sottolinea la ricorrente incidentale che una interpretazione contrastante con quella propugnata determinerebbe una violazione del principio costituzionale di parità delle armi perchè alla parte convenuta in appello si riconoscerebbe la possibilità di lasciar decorrere senza conseguenze un termine processuale mentre per le altre parti opererebbero le note preclusioni. Risulterebbe perciò maggiormente conforme al principio del giusto processo enunciato anche dall’art. 6 Cedu un’interpretazione dell’art. 346 c.p.c. che consideri come rinunciate le domande non riproposte dalla parte convenuta in appello entro i termini di costituzione.
Qualora la Corte non convenisse con la sua interpretazione, la ricorrente incidentale chiede sia proposta la questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 346 c.p.c. per violazione dei principi del giusto processo e della parità delle armi codificati nell’art. 111 Cost. e nell’art. 6 Cedu.
14. Il motivo è infondato.
La posizione assunta dalla corte d’appello è conforme ai principi enunciati da Cass. S.U. n. 7940 del 2019, cui il collegio intende dare continuità, secondo i quali nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353 del 1990 e dalle successive modifiche, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni o le questioni superate o assorbite, ma può limitarsi, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema decidendum” del giudizio di primo grado.
Non è richiesta, pertanto, alla parte vittoriosa in prime cure, ai fini della riproposizione in appello delle domande o eccezioni già proposte in primo grado e sulle quali il giudice non si sia pronunciato, la costituzione tempestiva, essendo sufficiente che tali domande o eccezioni siano espressamente e chiaramente richiamate fino alla prima udienza, in modo tale da manifestare la volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo ai sensi dell’art. 346 c.p.c. (Cass. n. 25840 del 2021).
La compatibilità del sistema così delineato col il principio costituzionalizzato del giusto processo è stata già efficacemente analizzata dal sopra citato arresto a Sezioni Unite; alla luce di quelle considerazioni, rispetto alle quali la ricorrente incidentale non introduce alcun argomento nuovo o diverso, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 346 c.p.c., da essa sollecitata appare manifestamente infondata.
Il secondo motivo del ricorso principale è dunque accolto, gli altri motivi rimangono assorbiti, il ricorso incidentale è rigettato; la causa è rinviata, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.
accoglie il secondo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri; rigetta il ricorso incidentale; rinvia, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione
- Redazione
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